Capperi & Zibibbo

 Il Cappero
Capparis spinosa della famiglia delle Capparidacee, da pianta spontanea di poco conto è diventata nell’ultimo trentennio, per i panteschi, fonte di reddito.
Prettamente mediterranea, ed a Pantelleria ha trovato probabilmente un habitat perfetto perché cresce spontanea ovunque. Sull’isola i contadini la coltivano in modo intensivo nei classici e caratteristici terrazzamenti. Il solo lavoro che richiede è la potatura dei tralci secchi a fine estate, ed il terreno pulito dall’erba. La parte più gravosa è la raccolta. Ha radice molto lunga e i fusti partono dal colletto radicale, le foglie sono alterne ed ovali di consistenza carnosa. Dall’ascella, delle foglie, crescono i “frutti” che hanno una gradevole forma di cuore di colore verde, i fiori sono bianchi o leggermente rosati e presenta numerosi stami viola lunghi. Profumatissimi. Dalla raccolta si passa alla selezione, si dividono per grossezza, per calibro, più è piccolo più è pregiato. Le piante si moltiplicano per seme o per talea. I semi di cappero sono minuscoli e germogliano con difficoltà, più facile la riproduzione per talea.
Ricco d’olio essenziale, contiene capparirutina e saponina. Ottimo diuretico, vasocostrittore e depurativo, gli si attribuiscono capacità afrodisiache. Per etichettare il prodotto deve avere la dicitura I.G.P. (Indicazione Geografica Protetta) “Cappero di Pantelleria”.
Capperi sotto sale: 5 kg di capperi, 2 kg sale marino. Procedimento: in una scodella capace mischiate il sale ai capperi, si creerà una salamoia che faciliterà la fermentazione lattica. Nei primi giorni aggiungete un altro chilo di sale marino, e quotidianamente mescolate. Dopo circa una decina di giorni, sgocciolate il prodotto e fatelo asciugare cospargendolo d’altro sale. Potete a questo punto conservarli sia in sacchetti di plastica sia in vasetti di vetro. Lavate dal sale prima di usarli.

Lo Zibibbo
Sono gli Arabi, forse anche loro lo introducono, che affinano le prime tecniche di coltivazione dello zibibbo. Lo stesso nome zibib, con cui chiamano l’uva passa, diventa nel tempo il nome del vitigno stesso. Marginale nell’economia isolana, durante il periodo borbonico si hanno appena 1000 ettari di vigneti, si passa ai 5.200 dai primi del 1900 al 1930, occupando il 70% di superficie coltivabile. 
I contadini si dedicano a questa coltivazione con molto amore e sacrificio seguendone tutte le fasi di lavorazione; fari i cippa, potare i tralci asciutti dopo la raccolta, scurriri pulire dall’erba, tenere pulito il terreno intorno per riservare ogni energia alla pianta, assicunnari dare terra, rincalzare nel periodo della fioritura, pizzicari tagliare i tralci lunghi precoci, tagliari tagliare, in pratica vendemmiare.
Il vino moscato è il prodotto fatto con l’uva omonima che può essere naturalmente dolce o spumante. E’ un vino leggero, e deve avere di norma 12,5 di grado alcolico e 8 di grado zuccherino. Il passito è un vino definito “vino dolce naturale”, di cui il disciplinare ammette anche una versione liquorosa che vede l’aggiunta di alcol. E’ un vino da meditazione, da sorseggiare ben freddo con qualche dolcetto secco, per potere “sentire” il sapore ed il gusto di questo ambrato elisir.
L’uva passa è messa a macerare nel vino moscato già stabilizzato, quindi arricchito con uva passa, a più riprese, per fare raggiungere il grado alcolico e zuccherino ideale, che devono essere rispettivamente 14,5 e 12. E’ lasciato a macerare per un mese quindi filtrato e riversato nelle botti a maturare. Cantine pantesche hanno vinto premi sino ad oggi impensabili.
 Il passito è diventato il fiore all’occhiello di tutte le grandi aziende vinicole, quasi un biglietto da visita di qualità e professionalità, tanto da fare nascere l’esigenza di proteggere il prodotto da contraffazioni e di tutelare la tecnica produttiva. Incluso tra i D.O.C. già dal 1971, solo nel 2000 è stato approvato dai produttori un disciplinare a cui tutti devono attenersi per produrre ed imbottigliare.

Nessun commento:

Posta un commento